Omero, nell’Iliade, VI 399-410, delinea, in un toccante incontro familiare, il personaggio di Andromaca:
«Pertanto, lo incontrò: insieme con lei andava un’ancella
che reggeva in grembo il bambino, docile, che ancora non parlava,
l’amabile figlio di Ettore simile a una bella stella,
che Ettore era solito chiamare Scamandrio, gli altri, invece,
Astianatte: perché Ettore da solo difendeva Ilio.
Certo, egli guardando il figlio sorrise senza dir nulla,
mentre Andromaca gli si avvicinava versando lacrime,
gli si aggrappò alla mano e gli rivolse la parola chiamandolo per nome:
«Sventurato, il tuo coraggio ti porterà alla rovina e non hai pietà
né del figlio piccolo né di me infelice, che presto sarò
vedova di te: presto, infatti, gli Achei ti uccideranno
assalendoti compatti; per me sarebbe meglio,
rimasta senza di te, finire sotterra. Infatti, non ci sarà altra
consolazione, una volta che tu abbia compiuto il tuo destino,
ma afflizioni: non ho più né padre né veneranda madre».
In questo passo il poeta presenta una moglie apprensiva e una madre premurosa, che compiange la sua condizione, δάκρυ χέουσα, 405, perché presagisce, con la morte del marito, la fine della sua famiglia, e una vita di infelicità, ἔμ’ἄμορον, 408, e di solitudine.
Definisce Ettore δαιμόνιε, segnato dal destino, e questi, nel rispondere alla moglie, accomuna la sua triste sorte a quella della città, del sovrano Priamo e del popolo troiano, senza accennare direttamente al suo funesto destino per non provocare un dolore lacerante nella moglie; inoltre, le comunica il suo profondo dolore al pensiero che, crollata Ilio, la moglie sarà ridotta in schiavitù, condotta via in lacrime dal vincitore, δακρυόεσσαν ἄγηται, 455: tale espressione riprende il δάκρυ del verso 405.
Ettore , dopo aver preso in braccio e baciato il figlioletto, riprende il colloquio con la moglie e le si rivolge con lo stesso appellativo da lei usato δαιμονίη, 486, segnata dal destino. Il poeta, in tal modo, vuole esprimere la sua solidarietà a marito e moglie, con delicata sensibilità, per la sorte che subiranno: lui la morte, lei la solitudine.
Euripide, nella sua tragedia Andromaca, riprende alcuni aspetti del personaggio omerico, vv. 91-99:
Andromaca: «[…] innalzerò al cielo lamenti (θρήνοισι), gemiti (γóοσι) e pianti (δακρύμασι) in cui sempre sono immersa. Infatti, avere sempre in bocca e sulla lingua il compiacimento del male presente è proprio delle donne. Di motivi per piangere non ne ho uno ma molti: la patria degli avi, la morte di Ettore, il pesante destino mio al quale fui aggiogata una volta precipitata immeritatamente in una condizione di schiava».
Andromaca vive una vita connotata da lamenti, gemiti e pianti: δακρύμασι, 92, richiama l’omerico δάκρυ χέουσα, VI 405, e δακρυόεσσαν ἄγηται, VI 455, e che ha conosciuto la schiavitù, δούλειον ἦμαρ ἐσπεσοῦσ’ἀναξίως, 99: ovvero quello che Ettore aveva temuto, Il. VI 463, χήτεϊ τοιοῦδ’ἀνδρὸς ἀμύνειν δούλιον ἦμαρ. In Euripide ritorna la formula omerica δούλειον ἦμαρ.
Il personaggio di Andromaca perviene a Virgilio carico di una lunga e prestigiosa tradizione letteraria greca e latina (Ennio scrisse una Andromaca aechmalotis, Andromaca prigioniera), ma il poeta, accogliendo alcuni aspetti peculiari quali l’infelicità e la solitudine, lo rivisita e lo ricrea secondo la linea sentimentale sottesa agli altri protagonisti nell’Eneide.
I versi seguenti sono, al riguardo, significativi, Eneide, II 453-457:
Limen erat caecaeque fores et pervius usus
tectorum inter se Priami postesque relicti
a tergo, infelix qua se, dum regna manebant,
saepius Andromache ferre incomitata solebat
ad soceros et avo puerum Astyanacta trahebat.
Vi erano un ingresso e un uscio occulti, passaggio usuale
tra i due palazzi di Priamo e di dietro una porta
abbandonata, per la quale l’infelice, finché il regno restava in piedi,
abbastanza spesso Andromaca era solita andare da sola
dai suoceri e al nonno conduceva il bambino Astianatte.
Virgilio definisce Andromaca infelix: l’aggettivo, staccato dal nome, è posto in rilievo, in seconda sede, dopo a tergo, come nel verso successivo Andromache dopo saepius. L’aggettivo infelix richiama l’omerico ἄμορον, Il. VI, 408. Il poeta latino vuole solidarizzare col suo personaggio e suscitare compassione nell’ascoltatore / lettore: ci presenta Andromaca, nella sua solitudine, incomitata, 456, mentre compie il suo dovere di nuora che va a salutare i suoceri senza la compagnia di alcuna ancella e conduce il nipotino dai nonni. Nel verso 457 l’accostamento di avo a puerum evidenzia l’affetto del nonno per il nipotino.
Anche Didone è una donna infelix, IV 450-451: Tum vero infelix fatis exterrita Didomortem orat: […], «Allora, certo, Didone infelice, atterrita dal fato, / invoca la morte». Questo avviene, dopo che la missione della sorella Anna, da lei inviata presso le navi a supplicare Enea di trattenersi almeno sino al levarsi di venti favorevoli, ventosque ferentis, 430, è fallita.
Ancora: Eurialo è infelix, IX 390: «Euryale infelix, qua te regione reliqui?», «Eurialo infelice, in quale punto ti ho abbandonato?». Niso, l’amico, è riuscito a sfuggire ai cavalieri comandati da Volcente, Eurialo, invece, è rimasto indietro ed è catturato dai nemici. Eurialo è un infelix come la vecchia madre, senectae / […] meae, IX 481-482, che, alla notizia della sua morte, evŏlat infelix et femineo ululatu, / scissa comam, IX 477-478, «corre l’infelice con gemiti propri di una donna, / stappandosi i capelli».
Il poeta latino è accanto a queste sue creature, lo dichiara apertamente, IX 446-447: «Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt, / nulla dies umquam memori vos eximet aevo /», «Fortunati entrambi! Se qualcosa può la mia poesia /, nessun giorno mai cancellerà il ricordo di voi, per l’eternità».
Nel libro III dell’Eneide Virgilio traccia del personaggio di Andromaca un ritratto suggestivo e per taluni aspetti nuovo rispetto a Omero e a Euripide.
Enea costeggia con le navi i lidi dell’Epiro, litoraque Epiri legimis, III 292, e sbarca nel porto dell’alta città di Butroto, celsam Buthroti accedimus urbem, 293. Qui una notizia incredibile, incredibilis rerum fama, 294, perviene alle orecchie di Enea. Il poeta introduce con tale espressione l’evento eccezionale che sta per narrare, all’interno del quale colloca la figura di Andromaca, III 295-297:«Priamiden Helenum Graias regnare per urbes, / coniugio Aeacidae Pyrrhi sceptrisque potitum, /
et patrio Andromachen iterum cessisse marito /», «il Priamide Eleno regnava su città greche, / ottenuti il coniuge e il regno dell’Eacide Pirro, / e Andromaca era capitata per la seconda volta a un marito della sua patria».
L’ultimo verso scopre la vicinanza del poeta ad Andromaca, che, dopo Ettore, va in sposa, per un gioco del destino, a un altro troiano, il cognato Eleno. L’avverbio iterum, al centro dell’esametro 297, esprime la tristezza di questa donna che, dopo aver perduto l’amato Ettore ed essere passata attraverso un rapporto amoroso imposto dal vincitore Neottolemo in quanto preda di guerra, si trova a vivere un rapporto coniugale con un troiano. Il racconto del percorso esistenziale di Andromaca scava nella psicologia del personaggio, che si fa carico del peso dell’esistenza.
Enea dichiara a Didone il suo stupore per questa singolare vicenda umana: obstipui miroque incensum pectum amore, III, 298, «rimasi stupito e con l’animo acceso da uno straordinario interesse». Il caso di Andromaca sta a cuore al poeta: casus conoscere tantos, 299. Enea la sorprende nel mentre sta compiendo un rito funebre in memoria di Ettore, il marito perduto.
Sollemnis cum forte dapes et tristia dona
ante urbem in luco falsi Simoëntis ad undam
libabat cineri Andromache manisque vocabat
Hectoreum ad tumulum, viridi quem caespite inanem
et geminas, causam lacrimis, sacraverat aras. III, 301-305.
«Per caso rituali libagioni e funebri offerte
davanti alla città, in un bosco sacro, presso le acque di un falso Simoenta
offriva Andromaca alle ceneri di Ettore e invocava i suoi mani
presso un tumulo, che, vuoto, elevato con verdi zolle,
aveva consacrato con due are, causa di lacrime».
Dopo tanti anni trascorsi, pur in una terra lontana e in una situazione del tutto nuova, Andromaca non ha dimenticato il primo marito. Presso un corso d’acqua, che le ricorda il Simoenta, il fiume che bagna Troia, accanto a un tumulo ove erano sistemate due are, invoca Ettore e piange. La voce lacrimis, 305, si ricollega alla espressione omerica δάκρυ χέουσα e all’euripideo δακρύμασι.
Alla vista di Enea, ut me conspexit venientem, 306, Andromaca si sente venir meno, labitur, 309, e a stento, dopo un lungo intervallo, riesce a parlare, longo vix tandem tempore fatur, ibid., e chiede ad Enea se sia vivo o morto, vivisne? Aut, si lux alma recessit, 311; se è morto, Hector ubi est?, 312. Pensa , anzitutto, ad Ettore: «dov’è?». Poi scoppia in un pianto dirotto e fa risuonare tutto il luogo dei suoi gemiti: il virgiliano clamore rievoca θρήνοισι e γóοσι di Euripide.
Enea le chiede informazioni sulla sua attuale situazione: mantieni il rapporto con Pirro?, Pyrrhin coniubia servas?, 319. La donna avverte il disagio, deiecit voltum[2], 320, la difficoltà a parlare – demissa voce[3], ibid., «con un filo di voce» – della sua vita attuale, riempita solo di assenze, motivata non dalla realtà presente, ma solo da quella lontana. L’assenza e la lontananza hanno, però, un significato per lei, la motivano, danno un senso alla sua attuale esistenza.
Andromaca è consapevole di vivere una vita infelice. Infatti, considera felice Polissena (III 321: O felix una ante alias Priameia virgo[4], «O fanciulla figlia di Priamo, felice più di ogni altra», sacrificata dai Greci sulla tomba di Achille. Non ha conosciuto come lei l’affronto della schiavitù e del rapporto sessuale imposto: «[…] quae sortitus non pertulit ullos / nec victoris eri tetigit captiva cubile![5]», «che non ebbe a soffrire alcun sorteggio né le toccò di andare a letto col vincitore, suo padrone». Neottolemo, poi, innamoratosi della spartana Ermione, si libera di lei, dandola in moglie a un suo servo, al troiano Eleno (III 329: «me famulo famulamque Heleno»).
A Butroto, Andromaca ed Eleno hanno creato una piccola Toia, III 349-351:
[…] parvam Troiam simulataque magnis
Pergama et arentem Xanthi cognomine rivom
adgnosco Scaeaeque amplector limina portae.
«[…] riconosco una piccola Troia e la riproduzione della grande
Pergamo e un arido rivo denominato
Xanto e abbraccio la soglia della porta Scea».
Andromaca ed Eleno ricreano il mondo perduto e vivono nell’illusione di colmare l’assenza con una presenza, sia pure fittizia.
Questi coniugi c’insegnano forse che non possiamo vivere solo nel presente, che il passato, il vissuto non è possibile rimuovere: ce lo portiamo sempre con noi. Probabilmente, è una scelta, sembrano dirci, che ci aiuta a sopportare la pena di vivere, che ci consente, in determinate circostanze, di continuare a vivere. È una lezione questa che definirei di realismo esistenziale.
Enea si sente attratto da questa illusione di rivivere un passato che gli appartiene. Abbraccia la soglia di quella che simula la troiana porta Scea. Considera felici Andromaca ed Eleno, perché almeno possono contemplare un simulacro di Troia, effigiem Xanthi Troiamque videtis, III 497; lui una patria ancora non ce l’ha, una terra ove possa vivere e rifarsi una vita.
Nel commiato, Andromaca si rivolge soltanto al figlio di Enea, ad Ascanio, nel porgergli il dono di una Phrygiam […] clamidem, 484, un mantello frigio: attesti, è il suo auspicio, l’affetto duraturo di Andromaca, la moglie di Ettore, […] longum Andromachae testentur amorem / coniugis Hectoreae, 487-488.
Il passato è sempre presente ad Andromaca e assume l’immagine del figlio e del marito perduti. A questo passato si aggrappa. Ascanio le ricorda Astianatte, III 489-491:
«o mihi sola mei super Astyanactis imago:
sic oculos, sic ille manus, sic ora ferebat;
et nunc aequali tecum pubesceret aevo».
«O sola immagine che mi rimane del mio Astianatte:
così aveva gli occhi, così lui aveva le mani, così il volto,
ora, uguale d’età, sarebbe un adolescente in fiore come te».
Notevole la posizione di ille al centro dell’esametro, dopo tre parole, come pure tecum centrale nel verso successivo, pure dopo tre parole. Il poeta ha voluto sottolineare somiglianza dei due adolescenti e rendere più cocente il dolore della madre, che ha perduto la sua creatura.
Il ricordo struggente del figlio, quello affettuoso del marito sono spia della scelta poetica di Virgilio che ha inteso delineare il ritratto della madre, della moglie ideale.
Andromaca è il simbolo della famiglia che Augusto con le sue leggi difendeva, promuoveva.
In un periodo in cui la famiglia tradizionale era tramontata, Ovidio ne attesta il superamento più eclatante, Augusto si adopera per ripristinare gli antiqui mores.
Se è vero che il personaggio di Andromaca si pone sulla scia di un canone letterario, che risale all’Iliade, d’altra parte, l’affermazione che tale ritratto risente dell’indirizzo etico e culturale perseguito dal princeps richiama l’attenzione su un aspetto importante del messaggio del testo.
Luglio 2023 Leonardo Di Vasto
[1] Il 26 aprile 2023, nell’aula magna del Liceo scientifico “E. Mattei”, in occasione della seconda edizione del Premio Incusa di Sibari, istituito dalla Delegazione A.I.C.C. di Castrovillari, tenni a braccio, sulla scorta di slides con una scelta di passi dell’Eneide, una concisa relazione su tale argomento, alla presenza degli studenti vincitori del premio e dei loro docenti (presenti studenti e docenti di Castrovillari – liceo classico e scientifico -, di Trebisacce, di Corigliano Calabro, di Cassano Jonio; assenti, perché in gita scolastica, quelli di Rossano Calabro che avevano partecipato al Premio). Ho voluto rielaborare e mettere per iscritto l’intervento perché contribuisca a ricordare quell’evento culturale significativo durante il quale gli studenti hanno palesato attenzione e motivazione. Il Dirigente scolastico, prof. Bruno Barreca, ex docente di matematica, ha seguito dall’inizio alla fine con interesse la manifestazione e ha voluto, nel suo saluto, condividere con i presenti una sua suggestiva poesia intitolata Il mio tempo, che è una riflessione sul tempo (efficace la chiusa: «Vorrei che il tempo fosse oggi, ora, adesso, in questo momento. / Vorrei fosse il tempo a passare e non io ad attraversarlo sgomento») consona col tema della Lettera di Seneca a Lucilio, 1, proposto dalla Delegazione agli studenti per il Premio, che evidenzia il valore del tempo (Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est, «O Lucilio, soltanto del tempo siamo padroni, di tutti gli altri beni no»; per Talete la cosa più saggia, σοφότατον, è il tempo, χρόνος: perché scopre tutto, ἀνευρίσκει γὰρ πάντα). La traduzione dei passi greci e latini è mia.
[2] Edmondo V. D’Arbela, nel suo commento al libro III, a proposito di questa espressione osserva: «atto di pudore, perché le riesce molesto il pensiero d’aver dovuto, suo malgrado, venir meno alla fedeltà verso Ettore», Carlo Signorelli, Milano 1967, p. 34.
[3] Al riguardo, ancora D’Arbela opportunamente annota: «Questo come il precedente sono altri tocchi profondi che dipingono la delicatezza d’animo della donna infelice», ibid.
[4] Nelle Troiane di Euripide, Andromaca aveva detto, nel dialogo con Ecuba, che Polissena aveva ottenuto, con la morte, un destino migliore del suo: ὅμως ἐμοῦ / ζώσης γ’ὄλωλεν εὐτυχεσέρῳ πότμῳ, vv. 630-631, «tuttavia è morta, è vero, ma con una sorte più fortunata della mia anche se sono viva».
[5] L’espressione richiama quella dell’Andromaca di Euripide: ἐκοιμήθην βίᾳ / σὺν δεσπόταισι, 390-391, «Sono costretta ad andare a letto con il padrone».